Protagonista oggi la mia personale esperienza, in un mondo fondamentalmente e fortemente legato agli stereotipi sociali di ogni forma e dimensione. 

Se pensate sia presuntuoso da parte mia inserire la mia storia tra quella dei personaggi straordinari dei quali vi ho parlato nelle scorse puntate, avete un po’ ragione e un po’ no. Penso sia importante portare anche la mia testimonianza e spiegare cosa mi ha spinta a creare questo podcast….e se non sono ancora famosa…beh, datemi tempo!

Essendo una femminuccia capita con una certa frequenza di imbattermi in stereotipi di genere, ma affronterò questo tema  in un’altra puntata, oggi parlerò d’altro. 

Si sa che lo stereotipo va a braccetto con il pregiudizio, con l’ignoranza (nel senso che ignora, alla Aldo, Giovanni e Giacomo insomma), una certa dose di superficialità e l’assenza totale di empatia. Non si pensa mai alle conseguenze spesso disastrose di certi atteggiamenti, di queste forme di odio che, soprattutto nei più giovani, derivano da imposizioni altri. Il razzismo si impara, qualcuno insegna ad altri la discriminazione, l’idea che malsana che certe persone, un genere particolare di individui debbano essere necessariamente sottomessi e nei casi più drammatici, eliminati.

Mi ci è voluto un po’ per decidere di raccontarmi, ma visto che ormai sono decisa devo necessariamente partire dagli albori, dalla mia infanzia, quando ho cominciato a capire che certi discorsi mi facevano venire il mal di pancia. Come alcuni di voi sanno già, sono nata in Salento, cresciuta a Torino e rientrata nella terra fra i due mari da pochi anni e da sempre vivo questo dualismo apulo-piemontese. Vivere due realtà differenti mi ha permesso di mettere a confronto culture simili ma profondamente diverse, ognuna costellata di stereotipi e basate su cose che si fanno perché “così è sempre stato”, che di fatto è la base di una formula magica malefica, in grado di sviluppare le più grandi ingiustizie sociali nel mondo. 

Dicevo di me. Sono stata cresciuta con genitori giovanissimi che mi hanno insegnato non c’era nulla che non potessi fare impegnandomi a fondo, ma che soprattutto mi hanno instillano la convinzione che non esiste nessuno che possa decidere la mia vita oltre me stessa, che dovevo sentirmi libera di essere chiunque volessi, nel modo che ritenevo opportuno. Da subito ho saputo cosa fossero tolleranza e amore per il prossimo, con le peculiarità di ognuno. 

Fin da piccolissima ho sentito il bisogno di comunicare, prima piangendo tantissimo per la gioia dei miei baby mamma e papà, poi con le parole, le prime pronunciate a nove mesi. In seguito difficilmente ho saputo trattenerle, così come le emozioni e devo purtroppo dire che non sempre questa facilità d’espressione ha giocato a mio favore, anzi, ma questa è un’altra storia.

Giocando per strada alla fine degli anni ’70 in un paesino della provincia brindisina, ho scoperto che esistevano giochi per bambini e giochi per bambine. Sprovvista di pendolino tra le gambe, mi venivano puntualmente preclusi gli inseguimenti alla “polizia e ladri”, i giochi con le macchinine, il calcio. E mi arrabbiavo tantissimo perché mi piacevano un sacco bambole e Barbie, ma alla lunga mi annoiavano e trovavo invece tanto divertenti quel nascondersi dietro le auto parcheggiate per sfuggire ai poliziotti o far correre le macchinine tra marciapiedi e pianerottoli. “Sei femmina, gioca con le femmine” mi dicevano impettiti quei ragazzetti con le ginocchia sbucciate. E allora facevo l’unica cosa che poteva dimostrare loro che ero al loro pari di energie e intraprendenza : li menavo. Lo so, non bisogna mai usare la violenza e non lo giustifico, ma tant’è sono riuscita a guadagnare la stima del gruppo (o il terrore, non lo saprò mai) ed entrare nella gang. 

Qualche anno dopo, dal sud mi trasferisco al nord con la famiglia. La mia nuova casa si trovava in un ridente borgo della provincia di Vercelli. Proprio qui mi sono scontrata con il demone del razzismo de casa nostra. Io piccola bambina meridionale, venivo puntualmente esclusa dalle piccole riunioni baby-leghiste in classe tranne che piccole, sporadiche e sostanzialmente imposte dalla maestra, attività di gruppo. Nove anni ed una capacità di socializzazione impressionante, riuscivo a fare amicizia pure con i bimbi delle macchine accanto in coda al casello. All’improvviso mi è stato impossibile legare con i miei coetanei. Giusto due o tre elementi di tanto in tanto sfuggivano al controllo dei leader in grembiule e timidamente si avvicinavano per giocare o fare i compiti con me. D’altra parte si trattava di quei bimbi tenuti alla larga da tutti perché secchioni o di famiglia così modesta da non meritare considerazione. 

I bambini nella loro meravigliosa ingenuità, possono essere, loro malgrado, molto crudeli, ma se cresciuti ed educati alla condivisione e al rispetto, difficilmente alzano muri di incomunicabilità. Il razzismo nasce dallo stereotipo sociale, da idee distorte su culture diverse dalle proprie, che il personale e spesso inconscio senso di inadeguatezza, impedisce di conoscere e approfondire e inibisce il comune scambio di esperienze. 

Io non riuscivo a capacitarmi del fatto che essere nata in una zona geografica a sud del Paese potesse scatenare un tale senso di rifiuto negli altri. Io non ero più Pamela, ero “la terrona”. 

Il primo bacio l’ho ricevuto dal ragazzino più carino dell’oratorio, quello che tutte aspettavano ogni pomeriggio tra risatine e risatine isteriche. La poesia del momento più emozionante della mia vita fu inesorabilmente rovinato quando un suo amico esordì dicendo:

-“Marco, ma lo sai che quella è la terrona?”

Credo di aver avuto il mio primo attacco di panico in quel preciso istante.

Silenzio.

Il bel figliolo mi lancia un’occhiataccia, si pulisce la bocca bleandomi pubblicamente e lanciandomi impietrita.

Traumatico, triste, sconvolgente.

Ci tengo a dire che fortunatamente tra tante brutture, ho avuto il piacere di conoscere  anche persone straordinarie alcune delle quali è ancora oggi fanno parte della mia vita. Mosche bianche straordinarie, che mi hanno fatta sentire meno sola e soprattutto meno sbagliata.

Il sostegno dei miei genitori è stato fondamentale, senza probabilmente avrei avuto serie difficoltà di relazione, ma la ferita c’era e facevo fatica a farla rimarginare.

A fine anni ’80 torno a vivere a Torino (la prima volta nei primissimi anni della mia infanzia), era l’autunno della mia terza media, piena adolescenza di una ragazzina che adorava Eros Ramazzotti e Madonna, che sognava ancora di diventare una ballerina, che cominciava a usare il burrocacao più spesso di quanto ne avesse realmente bisogno e che si trovava ad affrontare un nuovo grande cambiamento. 

Ricordo come fosse ieri l’appello della prof di italiano, che doveva registrare anche luogo e data di nascita per il rilascio del libretto delle assenze. In ordine alfabetico, tutti venivano chiamati e rispondevano tranquilli. Io sudavo, sperando che per magia saltasse il mio cognome e tutti quelli con la P per solidarietà. 

-“Dove e quando sei nata Pamela?”

Silenzio.

Non avevo il coraggio di parlare. Non era servito a niente ripetere la domanda e la prof intuì una reale difficoltà. Riuscì a confessare la terribile verità soltanto quando seduta accanto a me, chiese spiegazioni. Fu lei a spiegare commossa ai miei compagni il motivo della mia stranezza. Per tutta risposta ognuno di loro espresse a suo modo solidarietà e affetto. Più di tutti uno, del quale purtroppo non ricordo il nome e ne sono piuttosto dispiaciuta. Con assoluta fierezza nello sguardo, mi disse di stare tranquilla perché “qui siamo tutti terroni” riuscendo in un attimo a farmi scrollare di dosso tutte brutture di quella esperienza così negativa 

– Pam, vai tranqui, qui nessuno pensa a queste cose. Poi figurati, io sono straniero e nessuno mi ha mai trattato male.

  • Davvero? E da dove arrivi?
  • Dalla Sicilia!
  • Ma che dici? La Sicilia è Italia, non sei straniero!
  • È staccata dal resto del Paese, lo sono eccome!

Avevo 13 anni e quella risata è ancora impressa nella mia mente. Ricordo anche gli inviti a passare il pomeriggio insieme delle ragazze, le rassicurazioni dei ragazzi che mi avrebbero difesa se qualcuno avesse provato ancora ad offendermi. 

Vivere al nord non è meglio che vivere al sud, vivere al sud non è meglio che vivere al nord. 

La polenta non è migliore delle orecchiette con le cime di rapa, le orecchiette con le cime di rapa non sono migliori della polenta.

Questione di gusti e abitudini, nulla di più.

Gli stereotipi generano violenza, scatenano odio e per quanto poco possa fare nel mio piccolo spazio, continuerò a parlarne, a discuterne, a combattere contro.

Negli anni ’60 non si affittavano gli appartamenti ai meridionali, perché la convinzione fossero brutti, sporchi e cattivi era l’immagine identificativa della gente arrivata lì dalla Puglia, dalla Campania, Sicilia o Calabria. Il meglio o il peggio di un individuo non può essere determinato dalla provenienza geografica o dalle abitudini alimentari o dal proprio bagaglio culturale. Nel 2020 capita ancora, il tempo ha solo ridimensionato il fenomeno o meglio, ha trovato altro sul quale sfogare la propria indicibile malvagità. Ora sono gli stranieri quelli brutti, sporchi e cattivi.

Link della puntata:

https://www.spreaker.com/user/12286156/puntata-8-pamela-la-terrona